Il patto di non concorrenza: fondamenti, limiti e prassi giurisprudenziale

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Il patto di non concorrenza rappresenta uno strumento contrattuale importante nel diritto del lavoro italiano. Si tratta di un accordo attraverso il quale il prestatore di lavoro si impegna a non svolgere attività concorrenziali nei confronti del datore di lavoro a seguito della cessazione del rapporto di lavoro, per un determinato periodo di tempo e in un determinato territorio.

Tuttavia, la validità e l’applicabilità di tali patti sono soggette a limiti e criteri stabiliti dalla legge e dalla giurisprudenza. In questo articolo, esploreremo i fondamenti del patto di non concorrenza nel diritto italiano, i suoi limiti e le principali decisioni giurisprudenziali che ne hanno influenzato l’applicazione.

Che cos’è il patto di non concorrenza

Il patto di non concorrenza è codificato dall’art. 2125 c.c. il quale prevede testualmente che «Il patto con il quale si limita lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto, è nullo se non risulta da atto scritto, se non è pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro e se il vincolo non è contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo.

La durata del vincolo non può essere superiore a cinque anni se si tratta di dirigenti, e a tre anni negli altri casi. Se è pattuita una durata maggiore, essa si riduce nella misura suindicata».

I requisiti di legge

Forma scritta

L’art. 2125 c.c. prevede, innanzitutto, a pena di nullità, l’obbligo di forma scritta.

Il requisito di forma, ad substantiam, si giustifica con la chiara volontà del legislatore di tutelare il lavoratore da atti che ne limitano la libertà a seguito della cessazione del rapporto.

La forma scritta deve riguardare tutti gli elementi e le clausole del patto.

L’accordo può essere raggiunto in qualsiasi momento dello svolgimento del rapporto, anche a seguito della cessazione del rapporto del lavoro (Cass. 9 aprile 1991 N. 3709).

La giurisprudenza ha, in diversi arresti, affermato che il patto di non concorrenza non rientra nella disciplina  delle condizioni generali di contratto di cui agli artt. 1341 e 1342 c.c., e quindi non necessità della specifica approvazione per iscritto (c.d. doppia sottoscrizione), in quanto mentre lo schema contrattuale previsto dagli articoli 1341-1342 viene redatto da un contraente solo per essere destinato ad un pluralità indefinita di rapporti,  il patto di non concorrenza richiede riferimenti specifici al singolo rapporto, quali l’indicazione delle mansioni del lavoratore, la retribuzione, il corrispettivo per il patto, eccetera (cfr. Trib. Milano, 22 ottobre 2003, in Riv. crit. dir. lav., 2004, 122; Trib. Milano, 27 settembre 2005; Trib. Milano, 11 giugno 2001. Più in generale, sull’ambito di applicazione dell’art. 1341 c.c. si veda Cass. 14 luglio 2009, n. 16394).

Oggetto

Pur non contenendo l’art. 2125 c.c. riferimenti all’oggetto del patto, la dottrina e la giurisprudenza ne hanno definito la portata applicativa affermando che il patto possa regolamentare e vietare al lavoratore esclusivamente lo svolgimento di attività in concorrenza con quella svolta dal datore di lavoro, ritenendo che l’estensione del divieto oltre tale ambito comprimerebbe eccessivamente il diritto al lavoro e darebbe luogo ad un interesse per il datore di lavoro non meritevole di tutela giuridica da parte dell’ordinamento  (Trib. Milano, 12 luglio 2007, in Riv. Crit. Dir. lav., 2007, 112).

La disciplina del patto di non concorrenza è applicabile a tutti i lavoratori dipendenti, a prescindere dal tipo di attività lavorativa svolta, essendo esclusivamente rilevante che il  lavoratore operi in settori nei quali il datore di lavoro possa subire un pregiudizio (Cass. 19 aprile 2022 n. 5691).

La giurisprudenza ha affermato, inoltre, che il patto di non concorrenza può riguardare qualsiasi attività lavorativa che possa competere con quella del datore di lavoro e non deve quindi necessariamente limitarsi alle sole mansioni espletate dal lavoratore nel corso del rapporto” (Cass. 10 settembre 2003, n. 13282).

Territorio

Il patto deve inoltre, a pena di nullità, avere un limite territoriale.

La giurisprudenza ha chiarito che il limite territoriale deve essere inteso come divieto per il lavoratore di svolgere attività lavorativa nel territorio definito dal patto e non come divieto di prestare attività per società aventi la propria sede all’interno del territorio (Cass. 2 maggio 2000, n. 5477).

La valutazione del sacrificio complessivamente richiesto al lavoratore comporta che l’oggetto ed il territorio di validità del patto debbano essere considerati congiuntamente, tra questi due elementi intercorre infatti un rapporto di proporzionalità inversa: tanto più esteso è l’oggetto, tanto meno potrà esserlo il territorio, e viceversa (Cass., Sez. Lav., 3 dicembre 2001, n. 15253; Trib. Milano 3 maggio 2005; Trib. Milano 16 dicembre 1994).

L’estensione territoriale del patto di non concorrenza deve inoltre essere parametrata alla dimensione e all’attività del datore di lavoro.

In relazione all’estensione territoriale, la giurisprudenza negli ultimi anni si è assestata su posizioni che consentono una validità non solo all’intero territorio nazionale ma anche al territorio europeo, in considerazione della dimensione globalizzata dell’economia (Trib. Milano, 3 maggio 2013, Tribunale di Milano 16 luglio 2013; cfr. anche Cass., 10 settembre 2003, n. 13282).

Durata

L’art. 2125 c.c. prevede specificamente che la durata del vincolo non può eccedere i cinque anni per i rapporti di lavoro dirigenziali e di tre anni per le restanti categorie di lavoratori.

La violazione dei limiti di durata non comporta la nullità del patto, ma un’automatica riduzione ai termini di legge.

Corrispettivo e modalità di corresponsione

La congruità del corrispettivo, ossia la remunerazione ricevuta dal lavoratore in cambio dell’osservanza del patto, è sempre stato uno degli elementi di maggiore criticità e fonte in giurisprudenza di numerose pronunce di declaratoria di nullità del patto.

In linea generale si può affermare che la giurisprudenza richieda che il corrispettivo sia adeguato al sacrificio richiesto, essendo la ratio di tale previsione quella di compensare il sacrificio imposto al lavoratore in virtù delle limitazioni apportate alle sue possibilità di ricollocamento lavorativo.

Poiché l’art. 2125 c.c. non fissa alcun criterio per la valutazione della congruità del patto, lasciando libere le parti di determinarne l’ammontare e le modalità di versamento, la disamina della giurisprudenza in materia porta ad affermare che il corrispettivo debba comunque rispettare due principi fondamentali: 1) deve essere determinato o determinabile e 2) deve essere adeguato a compensare in misura proporzionale i limiti posti alla libertà del lavoratore di ricollocarsi sul mercato.

Risulta quindi insanabilmente affetto da nullità non solo un patto privo di corrispettivo o con un corrispettivo irrisorio, ma anche quello che ne contenga uno manifestamente iniquo o sproporzionato in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore e alla riduzione delle sue possibilità di guadagno, indipendentemente dall’utilità che il comportamento richiesto rappresenta per il datore di lavoro, come dal suo ipotetico valore di mercato.

La congruità del corrispettivo viene valutata dalla giurisprudenza in maniera inscindibilmente connessa con l’estensione – territoriale, temporale e di oggetto – delle limitazioni imposte al lavoratore (cfr. Trib. Milano 2 febbraio 2015).

Più ampia sarà l’estensione oggettiva, territoriale e temporale del patto, più elevata dovrà essere la percentuale di retribuzione da riconoscere a titolo di corrispettivo al fine di integrare compiutamente il requisito dell’adeguatezza (cfr. Trib. Roma, 13 ottobre 2021, n. 8274; Cass., 14 maggio 1998, n. 4891; Cass. 1° marzo 2021, n. 5540).

Ad esempio, in merito alla concreta quantificazione del corrispettivo in termini percentuali sulla RAL (retribuzione annua lorda) il Tribunale di Milano in diversi arresti ha ritenuto congrua ed adeguata una percentuale che oscilli tra il 15% ed il 35% (Trib. Milano, 18 giugno 2001; Trib. Milano, 05 giugno 2003; Trib. Milano, 22 ottobre 2003, Trib. Milano, 04 marzo 2009).

Il corrispettivo del patto non deve necessariamente avvenire in denaro, avendo la giurisprudenza ritenuto ammissibile anche altre forme che si traducano comunque in un vantaggio economicamente apprezzabile per il lavoratore, come ad esempio la stipulazione di un vitalizio ( Trib. Ancona, 21 marzo 2019, n. 558),  la remissione di un debito (Cass. 30 luglio 1987, n. 6618) o l’attribuzione del diritto a rimanere in un immobile (Trib. Torino, 19 febbraio 1964, p. 412).

Quanto alle modalità di pagamento, il corrispettivo può essere versato con cadenza periodica (mensile o annuale) oppure in un’unica soluzione, mentre con riferimento al tempo del pagamento, può essere versato sia in costanza di rapporto che dopo la cessazione dello stesso.

Sotto questo profilo viene rimessa ampia libertà alle parti in merito a tempi e modalità di pagamento, che possono liberamente combinarsi tra loro, anche prevedendosi una corresponsione rateale a seguito della cessazione del rapporto di lavoro.

 Con riferimento invece al tempo del pagamento, è ipotizzabile fissarlo sia in corso di rapporto sia alla cessazione del medesimo. Modalità e tempi di pagamento possono liberamente combinarsi fra loro nel senso che il pagamento rateale è ipotizzabile sia allorché il corrispettivo venga versato in corso di rapporto (tipicamente, unitamente alla retribuzione mensile di riferimento) sia quando si preveda un versamento alla cessazione del rapporto (la periodizzazione dei versamenti lungo l’arco temporale di durata del patto rende più efficace il controllo sul corretto adempimento dell’obbligo di non facere da parte del lavoratore).

Allo stesso modo il pagamento in soluzione unica è ipotizzabile sia in corso di rapporto (tipicamente, al momento di stipulazione del patto) sia alla cessazione del medesimo.

E’ tuttavia fondamentale che il corrispettivo erogato risulti, fin dalla stipulazione del patto, determinato nel suo ammontare e non rimesso ad altri fattori (ad esempio la durata del rapporto) che possano renderlo indeterminabile.

Secondo  l’orientamento giurisprudenziale maggioritario deve infatti essere ritenuto nullo il patto che preveda il riconoscimento di un importo indeterminato nel suo ammontare in quanto erogato periodicamente nel corso del rapporto di lavoro senza una specificazione del limite temporale, in quanto -in tale ipotesi- in assenza di una compiuta specificazione della durata del patto, risulta a priori impedito qualsivoglia sindacato circa l’astratta adeguatezza del corrispettivo (Trib. Milano, 29 settembre 2010, n. 3891; Trib. Milano, 25 marzo 2011; Trib. Milano, 19 aprile 2013, n. 1629; Trib. Milano, 14 aprile 2016, n. 1131; Trib. Milano, 26 maggio 2021, n. 1189).

In aderenza a tale orientamento, la Corte di Cassazione ha osservato infatti che «la previsione del pagamento di un corrispettivo del patto di non concorrenza, durante il rapporto di lavoro e senza la individuazione di un corrispettivo minimo garantito, àncora la sua determinazione ad una circostanza fattuale, quale la durata del rapporto, del tutto imprevedibile e non rispetta così il disposto dell’art. 2125 c.c. e la disciplina generale in materia di oggetto del contratto, che deve essere determinato o determinabile al momento della stipulazione del patto» (Cass. Civ., sez. lav., ordinanza 19/04/2024 n. 10679; Tribunale di Rieti n. 210/2020, Tribunale di Modena n. 89/2019).

Secondo la Suprema Corte, quindi, è fondamentale che le parti, al momento della stipulazione del patto di non concorrenza, prestino particolare attenzione a che il compenso risulti essere determinato o determinabile, e ciò a pena di nullità dell’intero patto di non concorrenza stesso.

Secondo un recente arresto della Corte di Cassazione, tuttavia, «la variabilità dell’importo minimo garantito, in ragione degli anni effettivamente lavorati, non comporta di per sé la nullità del patto di non concorrenza per indeterminatezza o indeterminabilità del quantum, potendo al più essere giudicato invalido in ragione della natura manifestatamente sproporzionata o iniqua dell’importo, che costituisce a sua volta un accertamento distinto e autonomo rispetto al primo» (Cass. Sez. lav., 11 novembre 2022, n. 33424).

Pur non potendosi desumere la nullità del patto di non concorrenza dalla modalità di erogazione del compenso, è consigliabile, allorché si preveda una modalità di erogazione del compenso periodica, prevedere meccanismi che regolino comunque anticipatamente la quantificazione del corrispettivo  del patto e sistemi di conguaglio che diventino operativi nel caso in cui il rapporto cessi anticipatamente rispetto alle previsioni.

Clausola penale

Nella redazione del patto di concorrenza le parti possono anche inserire una clausola penale in caso di inadempimento del patto.

Come noto, la penale ha la funzione di esonerare la parte che subisce l’inadempimento dalla prova del danno subito e di determinare in via anticipata e predeterminata la misura del danno subito, salva la previsione della risarcibilità del danno ulteriore (art. 1382 c.c.).

Tuttavia l’art. 1384 c.c. consente al Giudice di ridurre equamente la penale contrattualmente pattuita tra le parti se l’obbligazione principale è stata eseguita in parte ovvero se l’ammontare della penale è manifestamente eccessivo, avuto riguardo all’interesse che il creditore aveva all’adempimento.

La giurisprudenza ammette la possibilità di prevedere penali nel patto di non concorrenza, sia in misura fissa, ad esempio pari al doppio o al triplo del corrispettivo del patto di non concorrenza (cfr. Tribunale di Milano 3 maggio 2013) ovvero variabile, ad esempio una cifra predeterminata per ogni giorno di inadempimento del patto.

E’ importante, infine, ricordare che il pagamento della penale non libera il lavoratore dall’obbligo di rispettare, in futuro, il patto di non concorrenza.

La Corte di Cassazione ha infatti osservato, che «nelle obbligazioni di durata assistite da una clausola penale il divieto di cumulo fra la prestazione principale e la penale previsto dall’art. 1383 cod. civ. riguarda le sole prestazioni già  maturate e inadempiute e non quelle non ancora maturate e per le quali permane l’obbligo dell’adempimento, poiché  in caso contrario sarebbe consentito al debitore di sottrarsi alla obbligazione attraverso il proprio inadempimento. Pertanto in caso di violazione del patto di non concorrenza, come di ogni obbligazione di non fare per un determinato periodo, il creditore in cui favore sia stata prevista la clausola penale può  pretendere, in relazione agli inadempimenti già  maturati, l’esecuzione forzata dell’obbligo di non fare ex art. 2933 cod. civ., qualora ne ricorrano gli estremi, ovvero in alternativa il pagamento della penale, conservando peraltro il diritto al comportamento omissivo da parte del debitore sino alla scadenza del termine pattuito, con la conseguenza che in caso di ulteriore violazione può di nuovo pretendere, sempre alternativamente, l’esecuzione in forma specifica o il pagamento della penale» (Cass. Sez. Lav., 21 giugno 1995| n. 6976).

Violazione del patto

In caso di violazione del patto di non concorrenza da parte del lavoratore, il datore di lavoro deve procedere in via giudiziale per ottenere una pronuncia di risoluzione del patto, con conseguente diritto all’esonero dal pagamento dell’emolumento dovuto a titolo di patto di non concorrenza (ove ancora da corrispondere) o alla restituzione dell’emolumento eventualmente già pagato, oltre al risarcimento dei danni.

Il datore di lavoro può inoltre ottenere l’adempimento in forma specifica del patto, mediante azione inibitoria, normalmente in via d’urgenza ex art. 700 c.p.c., con lo scopo di paralizzare l’attività concorrente illegittima per tutta la durata del patto (cfr. Trib. Lodi 20 luglio 2009; Tribunale di Milano 25 marzo 2011).

Secondo la giurisprudenza, ove sia provata la violazione del patto di non concorrenza ex art. 2125 c.c., il giudice può infatti ordinare al lavoratore di cessare il rapporto di lavoro subordinato in essere. E’ possibile inoltre in sede cautelare adottare misure atipiche di coazione indiretta all’esecuzione di tale ordine, ponendosi a carico del lavoratore che non vi ottemperi una somma da corrispondere per ogni mese di inadempimento del suddetto ordine. (Tribunale di Bologna 29/1/2002, ord., in Lav. nella giur. 2003, 1153,).

La scelta da parte dell’ex datore di lavoro di agire per l’inibitoria non è preclusa dalla previsione di una penale, in quanto la condotta di concorrenza sleale posta in essere in violazione del patto può determinare dei danni che sfuggono a una rigorosa quantificazione economica per equivalente, anche se determinata dalle parti, ragion per cui rispetto a tali danni la tutela cautelare si pone in funzione strumentale dell’azione di merito tesa a ottenere l’adempimento del patto di non concorrenza, salvaguardandone gli effetti (Tribunale di Verona 18/08/2003).

Considerazioni conclusive

In conclusione, il patto di non concorrenza rappresenta uno strumento contrattuale molto importante nel diritto del lavoro, ma la sua validità e applicabilità sono soggette a diversi limiti imposti dalla legge e dalla giurisprudenza.

La giurisprudenza continuerà a svolgere un ruolo fondamentale nel definire i limiti e le implicazioni del patto di non concorrenza nel diritto italiano, riflettendo i cambiamenti sociali, economici e tecnologici in corso.

Pertanto, è essenziale rimanere aggiornati sugli ultimi orientamenti  interpretativi formulati dalla giurisprudenza in materia.

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